I.
Sia fausto e glorioso ai figli e nepoti lontani come a noi è sacro e felice questo giorno nel quale apriamo alla solennità degli officii la sede nova della repubblica. Mentre genti e governi d'Europa ondeggiano in tempesta di pensieri, d'eventi, d'aspettazioni; mentre un sordo brontolio sotterraneo par minacciare le fondamenta stesse della civiltà: questo palazzo, disegnato murato adornato secondo l'arte dei padri, noi con le memorie di quindici secoli accomandiamo e quasi protendiamo alle speranze dell'avvenire. Del passato, gli elementi e incunabuli di nostra gente e i sommi fastigi della sua storia noi salutiamo affacciandoci di qui alla vista delle città famose del piano, l'etrusca Ravenna, la gallica Rimini, Ancona la dorica. Che se Rimini co 'l ponte d'Augusto, Ancona con l'arco di Traiano, Ravenna con le urne dei figli di Teodosio ostentano le altezze e le miserie dell'impero di Roma, la nostra venerazione ricerca piú commossa nella tomba di Dante l'altare della vita nuova d'Italia. Di cotesti elementi, dei semi di cotanta storia, sollevati dal vento delle fortune mutevoli, è germinato in questa altura questo fiore della nostra libertà. Per sollecita cooperazione del genio di razza con le circostanze della natura e le condizioni dei tempi, ruinata la mole romana, Dio volle si rifacesse da povera gente latina quassú ciò che è anima e forma primordiale nel reggimento del popolo italiano, il vico e il pago, il castello e il comune, liberi. Fiaccata anzi tempo la gioventú delle repubbliche, nel torbido imperversare delle signorie, sotto il castigo della dominazione straniera, nella fatica gloriosa del risorgimento, e ora in conspetto di tutte le nostre genti raccolte la prima volta sotto il nome unico ed eterno d'Italia, Dio volle e vuole che questo San Marino rimanga, memoria, testimonianza, ammonizione.
II.
Iddio dissi, o cittadini: perocché in repubblica buona è ancora lecito non vergognarsi di Dio; anzi da lui ottimo, massimo, si conviene prendere i cominciamenti e gli auspicii, come non pure i nostri maggiori dei comuni, ma usavano gli antichi nostri di Roma la grande e di Grecia la bella. Odio vecchio a una superstizione pestiferamente tirannica, orgoglio novo di osservatori troppo fidati nelle vittorie del naturale esteriore, hanno quasi diseducato le genti latine dall'idea divina: ma né scelleranza di sacerdoti né oltracotanza di sofi sequestrerà Dio dalla storia. Dio, la piú alta visione a cui si levino i popoli nella forza di lor gioventú; Dio, sole delle menti sublimi e dei cuori ardenti, come il sole dei pianeti per le constellazioni favoleggiate, passa per le forme delle religioni, unico ed universale dio delle genti. Se non che, come a lui s'inalzano quasi naturalmente vòlti nel cielo che piú pare sua sede, cercandolo e invocandolo vendicatore e giudicatore, gli occhi e i vóti dei forti, mentre le braccia traggon le spade contro i tiranni e gli oppressori, cosí egli piú si compiace dei popoli quando vivono operano e combattono per la libertà. Ed egli è che spira il trionfo nelle trombe di Josua, egli è che sospinge nell'Egeo le navi di Temistocle, che annunzia a Roma trepidante i re oppressi su 'l lago Regillo, che percote di spavento il cavallo del Barbarossa a Legnano; e a lui avanti e dopo la vittoria s'inchina, immacolata di diadema, la fronte di Washington. Guido Cavalcanti va cercando se Dio non sia, ma tra le arche dei morti: mentre Dante Allighieri ai morti e ai viventi e a' non nati annunzia che Dio è e trionfa, lo annunzia co '1 piú alto dei canti umani che solca con un fiume di luce la barbarie e la rompe. All'anima infelice di Giacomo Leopardi tramonta fra gli spasimi dei deboli nervi l'idea di Dio: alla sana e salda anima di Giuseppe Mazzini Dio favella nel carcere di Savona e lo trae su 'l Campidoglio Ezechiele d'Italia. Ove e quando ferma e serena rifulge l'idea divina, ivi e allora le città surgono e fioriscono; ove e quando ella vacilla e si oscura, ivi e allora le città scadono e si guastano. Dio fu co 'l principio della nostra repubblica, o cittadini.
III.
Dimenticata nei molli tempi la salita al delubro ove Marcello console sacrò le spoglie del re dei Galli Viridomaro, su la deserta vetta Giove feretrio tacea: senza dèi, senza uomini, solo con sole vive nella ereditaria paura le figurazioni dei combattenti Titani, questo nostro monte in conspetto all'Emilia popolosa, alla portuosa Flaminia, al velivolo Adriatico levava le eccelse acute creste coronate di nubi e i massi portendenti ruina per le frane precipiti offeriva al riposo delle aquile e al volo dei pensieri che chiedessero libertà. Anche allora un senso di malattia, un bisogno di riposo, una irrequietezza di cose nove affliggevano, nel decomporsi la civiltà pagana, le menti: gli affaticati, gli oppressi, gli operai, gli schiavi guardavano in alto. E approdati dalle coste della Dalmazia in lontananza cerulee ai lavori del porto e delle mura di Rimini, due cristiani dai nomi italici, Marino e Leo, quassù vennero, non sappiamo se cercando materiali al lavoro o fuggendo ira di persecutori. Vennero; e tra il fatidico stormire delle foreste antichissime intatte e il pianto delle acque irrompenti, tra i bràmiti delle belve disturbate dai covili e lo scroscio delle procelle battenti le vette, quassú trovarono le due nobilissime soddisfazioni della vita umana, dignità di lavoro e libertà di credenza. Qui al lato di ponente Marino avvertí un grande vetustissimo sasso, che, tra minori pendenti, tutto chiuso intorno d'alberi e d'orrida ombra, formava un antro, e dentro vi sorgea una fresca vena d'acqua viva corrente. Qui fermava Marino, ma Leo riparò su 'l vicino monte Feretrio. Forti lavoratori erano al modo nostro d'occidente, e non oziosi contemplatori nell'ignavia orientale, i due dalmati fedeli al legnaiolo di Nazareth. E se nel chiaro mattino i salmi davidici da loro intonati mescolavansi lietamente ai gorgheggi degli uccelli piú gai, e se i treni profetici si sperdevano nel crepuscolo della sera tra gli stridori dei falchi, tutto il giorno i due monti sonavano al gagliardo picchiar dei martelli e all'insistente crepitare degli scarpelli su i cedenti macigni. E la leggenda rinnovando il mito natural dei titani, mostrava i due grandi santi a gittarsi da monte a monte, scambiando, i ferri del mestiere. Leone fu vescovo, e da lui la feudal signoria della diocesi feretrana. Marino fu diacono, e da lui questo Titano ripete il diritto della libertà popolare.
Il pio e forte uomo lavoravasi tra i sassi aridi un orto, si scavò un letto nella pietra, murò nella solitaria vetta un sacello. Al sacello miravano pescatori e barcaioli quando nei pericoli del gonfio e nero Adria osavano mostrare su le povere vele una forma di croce, miravano i condannati al lavoro delle pietre perché non vollero sacrificare su l'ara di Cesare; e insieme con quei miseri altri miseri ascesero e intorno al sacello si accolsero, agricoltori e pastori a cui la terra esausta e il pubblicano spietato contendevano e stremavano il vitto ed il gregge. Dio volle dimostrare la sua potenza nell'uom suo Marino, quando i superbi venuti a cacciare gli umili restarono immobili e inabilitati a più offendere: ma Felicissima, per la sanità resa ai figlioli e per la nuova santa credenza persuasale, Felicissima, madre e patrona, fece a Marino libero dono del Monte in possedimento perpetuo. Cosí, lungi ai potenti e beati del mondo, in faccia all'avvenire, nella carità e nella fede, apparisce compiuta quassú nell'ombra mitica la trasmissione della terra dal diritto della vecchia gente patrizia alla comunità della nova plebe italiana. L'uomo di Dio, addormentandosi nel suo signore, lasciò in comune il monte ai compagni di opere e di fede, che lo tenessero e lavorassero in pace con mutua carità. Intorno alla tomba e al sacello si mantenne stretta la compagnia de' cristiani, non veramente monasterio o cenobio, ma congregazione di fratelli a lavorare e adorare in libertà.
Tristi cose intanto succedevano al basso: crollavano imperii, e su le ruine, come onde incalzate dalle onde, venivano, premevano, sparivano torme e signorie d'ogni plaga. Quassú era la pace: una nube, come nelle poesie antiche, pareva ravvolgere la cima in cui venia crescendo al suo natural compimento la forma della città. Al basso il caos barbarico muggiva informe e selvaggio: quassú la poca superstite gente latina faceva o rifaceva pianamente i gradi per cui da Dio viensi all'uomo, dalla visione alla legge, dal paradiso alla repubblica; per cui alla teocrazia, regno della divinità e del mito, succede il consiglio dei padrifamiglia, patriarcato e idillio, per ceder poi luogo all'avvenimento del popolo, al comizio, all'aringo, che è la storia. E come, quando il grosso vapor della nebbia saliente ha ravvolto di grigia uniformità questo monte, se un colpo di vento serenatore sdruce e lacera in alto il funereo lenzuolo, vedonsi a un tratto allegre sventolare e sorridere al sole le bianche e azzurre bandiere su le tre "penne"; cosí, quando il secolo decimosecondo viene a spazzar via dagli annali italiani la caligine barbarica, prima tra le repubbliche, su l'alto Titano e le sette circondanti colline, scorgesi, dritta, ferma ed intera, la forza e libertà di San Marino.
IV.
Era il tempo che affidandosi la libertà alla religione, ciascuna città si poneva al patrocinio d'un santo. La nostra non ebbe a ricorrere a santi d'altra gente e a peregrini portenti: ella aveva il patrono nell'italico fondatore. Le supreme parole Relinquo vos liberos ab utroque homine (Liberi io vi lascio dall'un uomo e dall'altro) non le poté Marino aver pronunziate: troppo era aliena l'idea barbarica del doppio feudalismo nell'impero e nella chiesa dal concetto della romanità pur cristiana del secolo quarto: ma verissime elle sonavano nel decimo o undecimo quando al santo moriente le diede lo scrittore quale si fosse della sua vita e degli atti. La città di Marino crebbe veramente libera dall'uno e l'altr'uomo: dall'imperatore e dal papa, dal conte e dal vescovo. Sola tra le italiane ella divenne a stato di repubblica non per privilegio di Cesare o di Pietro né per larghezza di altre autorità in sago o in mitria o in cocolla, non finalmente per legge positiva, ma per naturale andamento delle cose se non per tradizione ereditaria di gente. Forse è vero che la pieve di San Marino non accolse mai fuggitivo dalla faccia di Ottone l'ultimo imperatore italico Berengario; ma io vi dico in verità ch'ella accolse di meglio, accolse di su i ruderi delle arse e vuote città l'ombra della libertà antica, quando, sí come quelle intorno all'ara o alla tomba del nume o dell'eroe indigete, cosí ella veniva crescendo intorno al sacello e all'avello del santo lavoratore. Quale nobiltà piú grande e pura? quale piú buona? Perocché la povera piccola repubblica, pur valendo a quinci e quindi schermirsi dall'avarizia della chiesa di Rimini e dalla cupidigia della chiesa feretrana, non conquistò né ingannò né oppresse, ma acquistò, meritò, attrasse. Onde quella che Aristotele chiamava isonomia, e richiedeva nella perfetta repubblica, e che la rivoluzione francese sancí con la formola Eguaglianza di tutti in faccia alla legge, qui venne fuori per emanazione spontanea da volontà sincera d'uomini semplici: l'eguaglianza, cioè, fu natural conseguenza del libero assembrarsi tutti i capifamiglia nell' aringo, il quale, cresciute poi le famiglie nelle nuove generazioni e per le nuove aggregazioni, delegò la sovranità a un Consiglio tuttora rinnovantesi per elezione.
Con la conscienza di tali origini non è meraviglia che in tutti i cittadini vivesse e viva cosí ingenito e profondo il sentimento della libertà, cosí netta e chiara l'idea, cosí recisa l'affermazione. – Che è esenzione? – dimandava nel 1296, fiorente la scolastica, un chierico delegato da Bonifazio ottavo a risolvere le differenze tra gli uomini di San Marino e il vescovo montefeltrano, e mirava forse a impacciarli. Quei forti e semplici rispondevano – Non essere tenuti a fare ciò che fanno gli altri che sono sottoposti. – Che è libertà? – E l'uno rispondeva come uno spartano – L'uomo esser libero e non tenuto ad alcuno, –; e l'altro cristianamente – L'uomo esser libero, avere il suo, e di quello non esser tenuto a persona se non al signore Gesú. – E quali si affermavano, tali si fecero conoscere e rispettare dai potenti e dai sapienti. Nel secolo decimoquarto un cardinale detto Anglico riferiva al legato pontificio in Bologna: Gli uomini di San Marino non ammettono potestà della Chiesa né altra che a nome di lei eserciti giurisdizione, si rendono giustizia da sé in civile e in criminale senza autorità o tolleranza d'ingerenze della Chiesa. E il piú latino storico di Venezia menzionando ammirava questa "comunanza di uomini montani che repubblica amministrano né servono ad alcuno". E il poeta dell'Italia liberata salutava
San Marino
Che di perpetua libertà si gode.
Libertà perpetua, e di diritto, piú veramente e santamente che non le dinastie dei conquistatori, divino. Divo Marino patrono et libertatis auctori dice con romana leggiadria la leggenda della chiesa vostra, o cittadini; e i vostri maggiori invocavano il santo, fiamma di carità, gloria del monte Titano, predicatore dell'evangelo e fondatore della libertà, che riguardasse alla famiglia sua, e pigliasse arma e scudo e sorgesse all'aiuto di lei, sí che, prostrati i nemici dell'anima e quelli del corpo, ella valesse a trionfar seco ne' cieli.
V.
In questo fatto, nella congiunzione cioè dell'idea religiosa alla politica sí che una sia e ad una riesca la fede la patria la repubblica e se lo stato è prodotto della religione la religione divenga a sua volta instrumento dello stato; in questo fatto, che fu il fondamento delle politíe greche e della repubblica romana, sta la ragion prima della durata e longevità della repubblica nostra. L'altra è nella natura della sua constituzione, la quale non oscilla su 'l bilico pericoloso della tradizione e della rivoluzione, né reggesi all'incerto equilibrio di forze conspiranti ad un'azione senza pur mai toccarsi, ma, come albero in terren proprio da sue radici profonde, venne su da consuetudini antichissime abituatesi nella vita del picciol popolo. La plebe mariniana, pur avanti che spuntasse il verde dei comuni italiani, già cresceva matura nella libertà: qui il terreno non era da smuovere e fecondare pur co' travagli e co 'l sangue delle pugne feudali, a cui tenesser dietro le vendette de' vincitori e le riotte de' vinti. Né qui dall'antipatia naturale di due vecchi elementi constretti a nova compagnia e dall'avversione ereditaria ne' sangui forzatamente sposati, né dall'elevamento di un terzo strato male culto e peggio calcato nel conflitto dei due popoli primi, ebbero a prorompere le disuguaglianze le divisioni le scosse, che ingrossarono a guerre civili e sedizioni sociali e cui solo le signorie spianarono passandovi sopra il rullo livellatore della tirannide. Qui la repubblica evitò signoria, mutando a tempo i due consoli in capitani e difensori, affidando al primo l'autorità e dignità del popolo vecchio che aveva fatto lo stato, al secondo la rappresentanza e difesa del popolo novo aggregato dal contado. E qui nessuno accennò mai di levarsi tiranno, ignoto nome le sedizioni, e le rivoluzioni si conoscono dalle storie estere: qui l'albero della constituzione dal terren disposto crescendo all'aere amico, tagliati a pena alcuni rami in su 'l seccare, corretti e afforzati da benigne potature altri pochi, con pochissimi innesti a tempo e non esotici, allarga nei secoli l'ombra a proteggere i nepoti come protesse gli avi, questi e quelli forti e innocenti.
Forti, dico, perché al durare questa repubblica mal cercherebbesi ragioni nella sua o piccolezza o postura. Il valor della postura perde e muta rispetto ai tempi ed ai mezzi, né la piccolezza schiva ingordigia; ma sí la forza è rispettabile anche nei piccoli. Ora gli uomini di San Marino tra le risse e cupidigie d'intorno presto impararono a convertire in lance e spade le marre, sempre e bene provvidero alle armi e fortezze, militarono e militano sempre tutti al segnale della patria; né furono distratti e lusingati, come purtroppo le altre italiane repubbliche, a commettersi nei mercenari. Francesco di Marino Giangi, a oste nel 1503 sotto Longiano nella lega contro Cesare Borgia, scriveva ai capitani reggenti gli mandassero la bandiera della patria, non sofferirgli l'animo di vedere i cittadini della repubblica a combattere sotto altra bandiera.
Innocenti, dissi; perocché, ad onta di tutti i filosofi del male antichi e novi, la dirittura degli animi, la morale instituzione, il buon costume, sono le forze onde gli stati crescono e le repubbliche fioriscono e durano. Nella dirittura il piccolo San Marino è grande tra le repubbliche nostre, non troppo lodate o lodevoli sempre di fede. Nel 1375 nefanda congiura era fatta di tradir la patria al vescovo di Montefeltro, e nella congiura aveva intinto da Pesaro certo dei Pianelli d'Otranto, un vendilegge, come tanti ne furono e sono a paga de' tiranni. Scoperto, l'omiciattolo riparò a Otranto nell'asilo d'un monastero; e un barone di là da lui disservito si profferse darlo in forza della repubblica. Ma i capitani Lunardino di Bernardo e Simone di Belluzzo risposero, non accetterebbero mediante perfidia e violazione quell'uomo, il quale bastava si fosse chiamato reo per sé stesso. Potente era nel 1506 Francesco Maria della Rovere nepote di Giulio secondo, erede successore ai Feltreschi protettori antichi e fedeli, benevolo molto egli stesso alla repubblica. Egli venne chiedendo gli consegnassero alcune famiglie riminesi che eransi rifugiate nel paese: alla quale richiesta i capitani semplicemente risposero, i cittadini sammarinesi essere apparecchiati a morir tutti anzi che mancare alla fede e all'onore. All'amore del giusto sempre andò congiunto quello della libertà, tanto piú acceso ed alto quanto piú umile era la patria ove l'aveano a godere e difendere; e in quell'amore si esaltavano con sentenze ed affetti che rammentano i vecchi romani a cui non temevano quei piccoli e generosi venire in paragone. Marino Calcigni a' suoi giorni, che furono del secolo decimoquinto, era uom dotto e di grande affare; al consiglio di piú d'uno dei signori di Romagna, e ambasciatore della repubblica a piú pontefici; ancor giovine nel 1427 mandava da Bologna pregando i reggenti, curassero che nella repubblica non intervengano scandali, "a voler mantenere quella nostra santa libertà la quale niun tesoro del mondo può comperare": e, vecchio, contro le minacce di Sigismondo Malatesta scriveva ai 25 ottobre del 1456: "Si vuole fare come i buoni romani, venendosi a perdere la libertà si vuole perdere la vita insieme con quella".
A tali idealità il reggimento voleva fossero cresciuti nella scuola i fanciulli e curava eleggere gl'insegnanti da ciò. Nel 1532 un Ercolano maestro del pubblico compose una storia di San Marino in verso eroico, per la quale il Consiglio donavagli con frugalità antica sei braccia di panno. Nelle provvisioni con le quali la congregazione degli studi formava i maestri si leggono sentenze come queste, auree d'intendimento e di parola: nel 1587, "i figliuoli che vanno alla scuola imparino non solo le lettere ma anco i costumi": nel 1561, "si facciano degli uomini da bene, i quali di poi sieno atti e idonei a governar la repubblica e mantenerla". Con tale una instituzione gli scolari nel 1774 supplicavano fossero accorciate le vacanze, ché troppo recavan danno al proseguimento degli studi.
Nel sangue poi di questa gente, sí accesa d'amore alla libertà e alla patria, sí dritta e sobria e temperante, era ed è maturata una intima civile umana bontà. In quattro secoli, dei peggiori per l'enormità dei delitti e per la vendetta selvaggia nelle pene, dal decimoquarto a tutto il decimosettimo, quando le piazze e le vie delle piú nobili piú eleganti piú gentili città guazzavano tuttavia nel sangue piovente dai patiboli e i patiboli rizzavansi al divertimento delle dame, San Marino vide solo otto volte la pena capitale, cassata poi nel 1847 dal codice.
VI.
Per tali virtú la repubblica stette: e ribattuti quindi i vescovi di. Montefeltro e quindi i Malatesta di Rimini, emerse immune cosi dall'invasione del feroce figliuolo di Papa Borgia come dalle insidie dell'osceno figliuolo di papa Farnese. Ma la chiesa romana non perde mai d'occhio ciò ch'abbia una volta pur solamente appetito; e nel mondanissimo fasto della falsità sua politica non seppe mai perdonare alla piccola repubblica il coraggio di averle sempre negato su la faccia la favola della donazione di Pipino.
Nella miseria e abiezione d'Italia, che fu massima al secolo decimosettimo, San Marino, riparandosi nell'oscurità, seppe vivere. Uno scrittore d'allora, che ricorda nello stile migliori tempi, da essa intitolando un suo dialogo la città felice reca innanzi Giovanni Andrea Belluzzi, cittadino di lei, a cosí dire "i nostri vicini stessi non sanno bene a dentro la felicità di questa repubblica, i lontani né pure la conoscono per nome: cosí oscuri agli altri viviamo celebri a noi, e creduti meschinissimi e miseri da tutti stiamo commodí e contenti fra di noi". Parole queste che non possono leggersi senza una quasi tenerezza di accoramento, come non senza meraviglia si legge, a riscontro, d'un altro che nella figurazione viva e barocca del tempo dipinge San Marino "ostentante il sopracciglio della sua libertà all'invidia d'Italia serva". Ahimè! la servitú e la tirannia accovacciate al basso gittarono una zaffata di lor corruzione anche quassú; e co 'l languire dell'amor patrio e il crescere dell'inerzia parve sormontare all'eguaglianza civile la superbia e il reggimento restringersi piú sempre alle mani di pochi. Allora la lupa vaticana levò il muso e fiutò. Era la sua ora.
I tre cardinali che nello scadere del cattolicesimo sfogarono la mondanità loro a servire il despotismo borbonico possono da certa politica che troppo perdona essere adulati di grandezza; ma sí nelle opere e nei costumi sí nelle arti e negli accorgimenti di regno essi contraffecero agl'instituti cristiani e macchiarono il carattere sacerdotale tanto, che innanzi alla fede nell'evangelio e alla conscienza della dignità umana non possono trovare assoluzione: insigne esempio come il sacerdozio, dato consigliere e guida alle anime nelle relazioni con l'infinito, ogni qualvolta deviando dall'ordine umano e divino viene a mescolarsi con la terra con il ferro e con l'oro, ne riesca non si sa qual piú tra corruttore e corrotto. Ambizione Giulio Alberoni ebbe da quanto il Richelieu, flessibilità e mutevolezza da quanto il Mazzarino, piú audace de' due, ma anche piú improvvido e imprevidente. Parve fatto a ingrandire o sconvolgere i regni: ma lasciò la Spagna sotto gli sforzi che le comandò cosí prostrata che tardi se ne riebbe o non mai. Gl'italiani non potranno perdonargli ch' e' volesse restituirli sotto la piú malefica soggezione: ma egli era un di que' vasti spiriti irrequieti che la patria nostra non più padrona di sé alimentava per gittarli tra le dominazioni straniere sí come fiaccole, a dimostrazione della vita che ancora le ardeva dentro e a vendetta. Quando l'Alberoni dalla legazione di Ravenna, ove mal digeriva i ricordi dell'Escuriale, mosse contro San Marino, a Benedetto decimoquarto, allora cardinal Lambertini, egli apparí come un ghiotto, che, divorato un lauto pranzo, risentisse la voglia d'un pezzo di pan bigio. Cotesto, mi perdoni la sua filosofica santità, è un paragone da refettorio: il vero è che il cardinale avea tramata e perpetrava un'imboscata frodolenta e un'aggressione selvaggia proprio come quelle che i Papi Borgia e Farnese politicamente inculcavano e ponteficalmente perdonavano ai loro bastardi. Cotesto cardinale di Santa Chiesa e ministro del re cattolico appoggiavasi, facendo sua la lor causa, di due micidiali e predoni da asilo, l'un de' quali aveva messo mano nel sangue paterno, i quali ora congiuravano a spezzar la repubblica per nascondere sotto i titoli del tradimento delitti e debiti: e mente e instrumento eragli nell'impresa un notaio falsatore di atti pubblici, commissario fellone della repubblica. Per amore e a guida di cotale genia il suscitatore della monarchia di Carlo quinto gloriavasi affrontare "quattro villani repubblichisti", com'egli diceva, che "in quel loro mucchio di sassi non potrebbero respirare senza una generosa tolleranza de' romani pontefici", e la repubblica del vecchio santo lavoratore ei rappresentava all'Europa come una Ginevra in mezzo al tenere pontificio, come un nido di oligarchi tiranni, come una tana di cani arrabbiati. Contro l'insana violenza e calunnia la repubblica semplicemente e umilmente impavida facea dire a Roma: Se il pontefice non volesse piú quel luogo libero, poteva distruggerlo, avendo a fare contro gente senza forze da contrastare: ma sarebbe gloria a San Marino poter dire di aver perduto la libertà per far la giustizia.
Eccellentissimi capitani reggenti, signori del Consiglio, cari cittadini, voi troppo ben sapete la storia della vostra terra; che alcun dei vostri anche di fresco ha raccolta e narrata sí degnamente. Ma nelle feste del comune che potrebbesi meglio del rappresentare agli animi dei nipoti le azioni memorabili dei maggiori? e quale piú memorabile azione del resistere e vincere per la giustizia e la libertà i piccoli e generosi contro i grandi codardamente potenti? E d'altra parte questo mio discorso non è senza qualche intenzione d'essere ascoltato dalla maggior patria, l'Italia, della cui storia nei tristi annali della servitú non è poca gloria né picciol conforto la luce della vostra giornata 25 ottobre 1739, o Sammarinesi.
Erano le dieci del mattino, e il sole d'autunno placido ma solenne testimone splendea nella pieve tra i doppieri dell'altar maggiore su l'argenteo busto del santo: quando il cardinal Alberoni in mezzo un corteggio di gentiluomini esteri e di ribelli della repubblica, con grande sfarzo di livree e di musiche, scortato da una compagnia di corazzieri, seguito da squadre di birri, entrò nella chiesa. Celebrava la messa solenne monsignor vescovo di Montefeltro, quasi recando la soddisfazione della vecchia feudalità ecclesiastica al consumarsi della pontificia usurpazione. Il cardinale prese posto a destra dell'altare, ricoprendo superbamente degli ostri romani distesi il povero trono della reggenza repubblicana. In chiesa lo accerchiarono intorno intorno i corazzieri: di fuori erano attelate le milizie di Rimini, e guardavan la porta i birri con il bargello alla fronte e il carnefice in coda. Monsignor vescovo in gran paramento era giunto al leggere del vangelo, e sua Eminenza teneva aperto su le ginocchia il libro degli evangelii. A questo punto, se una favilla a pena di quella fede onde recavasi testimonio e presentavasi segnacolo quel libro, se una favilla, dico, di quella fede avesse pur guizzato moribonda nello spirito del cardinale, egli avrebbe dovuto scuotersi e balzare in piedi esterrefatto. Egli avrebbe dovuto veder movere e assorgere di sotto l'altar maggiore dalla sua tomba Marino, e alto, diritto, terribile, erto il capo, con la gran barba ondeggiante, fiso in lui l'occhio, il braccio, il dito, tonargli – Prete, che è questo? Viensi egli con la musica co' soldati e co 'l boia nella chiesa dei poveri di Cristo a scoronar me, a cacciar del retaggio i miei figli? Questa chiesa l'ho fatta a loro io, questa libertà l'ho data a loro io, questa terra l'ho lasciata a loro io, io tagliatore di pietre e confessore di Cristo. E tu, ortolano di Firenzuola scappato dal lavoro in sagrestia, tu ammantellàtoti di Cristo per oro e argento, tu che vuoi qui? Tu hai rovinato la Spagna, volevi annuvolare la guerra civile su Parigi, volevi condurre i Turchi in Ungheria. Va, va, piacentiere dei bastardi di Francia: va, va, paraninfo e aizzatore di mogli e drude reali! Fuori dalla chiesa di Cristo, o prete sacrilego! fuori dal tempio dei liberi, o cortigiano guastatore di regni! – Certo l'arido cuore e il perverso intelletto del cardinale nulla sentí di tutto questo, ma lo spirito di Marino invase il suo popolo.
Qui non occorre tentare l'eloquenza, qui il dramma è nella cronica, il sublime nel semplice: ridiciamo le parole semplici dei cittadini. Chiamati questi al giuramento, Alfonso Giangi, pur eletto del nuovo governo, distesa la mano, francamente guardando nel viso al cardinale, – Il primo giorno di questo ottobre – disse – io giurai fedeltà al legittimo principe della repubblica di San Marino; quel medesimo giuramento adesso confermo, e cosí giuro –. Chiamato quinto Giuseppe Onofri, uomo d'autorità e di grande animo, appressatosi al trono, proferí lento e preciso cosí: – Se il santo padre mi obbliga al giuramento con suo venerando assoluto comando, io son pronto a prestarlo; se poi lo rimette all'arbitrio della mia volontà, io confermo il giuramento altra volta prestato e giuro d'esser fedele alla mia diletta repubblica di San Marino –. A questo nome, a quella vista, tutti i cittadini ricordevoli e fedeli della dolce libertà proruppero in un solo e fortissimo urlo: Viva la repubblica di San Marino! Ed ecco anche Girolamo Gozi, che, aperte le braccia verso il cardinale, gli grida – Io faccio a Vostra Eminenza la stessa preghiera che Gesú Cristo al padre nell'orto di Getsemani, Si possibile est, transeat a me calix iste; mentre, sin che vedrò su 'l capo del mio gloriosissimo San Marino la corona che mi dimostra esser egli il mio principe, non ho cuore di fargli tale sfregio, ma dirò sempre: Viva San Marino, viva la sua repubblica, viva la libertà! – Tutto ancora il popolo, con le mani levate, con gli occhi luccicanti, accalcandosi, fremendo, acclamava le ultime parole. Fino il diacono che serviva la messa, lasciato l'officio e voltatosi, rigridava: Viva San Marino e la sua repubblica! E un prete musicante, dall'orchestra: Bravi! Viva la libertà! Cosí consiglieri seguivano a consiglieri giurando pure la libertà tanto che il cardinale non potendo piú contenersi uscí in minacce e in parole che parvero ebbre. Ma quando si venne all'intonare l'inno ambrosiano, il popolo non patí che si volesse lodare Dio della frode, della violenza, della libertà rubata; e sí forte e fiero salí il fremito dell'indignazione, che al fine il porporato impallidí tra le spade sguainate intorno all'altare; e il capitano della nova milizia, un de' ribelli premiati, fece armare i moschetti al grido – Salvate la vita del principe –. Il principe, masnadier di ventura tardato, ordinò il saccheggio; e il saccheggio durò quattr'ore. Girolamo Gozi, quello stesso del giuramento, che ebbe vuotata la casa, scriveva: Figliuol mio, mi son ridotto un pover uomo, ma mi trovo quietissimo e dormo tutt'i miei sonni, come se avessi fatto un'eredità.
VII.
Sfuggita all'attentato cardinalizio con islancio di viragine mal sorpresa nel sonno, la repubblica strinse al cuore le virtú di prima; e rifiutando con presaga sapienza l'offerta d'ingrandimento dal signore della vittoria e disciplinatore della rivoluzione, raccoglievasi a quello che fu officio nobilissimo dalla natura e dalle origini a lei assegnato nella sua storia, a quella che fu la parte benefica sua nella storia d'Italia, assicurare l'asilo ai vinti dalla forza o dalla fortuna, ai perseguitati dalla malvagità o dalla sventura. Cosí ella tra i molti minori scampò dai baccanali della ferocia borbonica Melchiorre Delfico e dalle reti del sospetto chiericale Bartolommeo Borghesi; e l'uno le diè la sua storia, e l'altro propagò il nome di lei nel dotto mondo con quello di Roma. È un bel ricordare, quando gli stranieri piú battevano Italia, l'autore dei Fasti consolari, che in cima a questo Titano, ricongiungendo nell'opera sua di cittadino e scrittore l'ultimo superstite comune italico alla maestà di Roma imperante, passava in rassegna un popolo di consoli riconoscendo a ciascuno il suo stato di servizio, e salutava ognuna pe 'l suo numero e co 'l suo nome le aquile delle legioni che, incoronate dalla nostra antica dea la Vittoria, movevano per le vie consolari a portare la civiltà all'Eufrate e all'Atlante. In grazia di che il sapiente e forte vecchio fu confortato di vedere ancora su questa vetta un lampeggiamento di gloria che parea dalla nostra antica istoria venire. Imperocché quando una repubblica che da sé dicevasi grande ebbe sopraffatta e non doma la repubblica eroica di Giuseppe Mazzini, allora questa repubblica piccola di San Marino raccolse con Giuseppe Garibaldi gli sforzi supremi della italica virtú combattente.
Eccellentissimi capitani reggenti, signori del Consiglio, cari cittadini, il mio discorso affrettasi al fine, senza apparato di peregrina e vana eloquenza, co 'l fatto che piú alto incorona la vostra istoria e piamente la ricongiunge al risorgimento della nazione. Qui venne l'eroe: l'avea preceduto Francesco Nullo il cavaliere prode dei prodi e Ugo Bassi il monaco martire. Era l'Italia antica e la nova, che battevano alla tua porta, o repubblica buona. – Due eserciti m'inseguono e stringono – disse l'eroe. – Le mie genti sono sfinite dalla fame e dalla fatica. Datemi pane e un po' di riposo per loro. Qui deporremo le armi, e qui cesserà la guerra dell'indipendenza italiana. – E voi e i vostri padri, in conspetto del nemico incalzante da presso, deste pane e riposo e pietà agli afflitti e battuti fratelli, deste ai profughi il viatico e agevolaste la via; e l'ombra della repubblica protesse l'eroe che affrontava i fati novi d'Italia. Sii benedetta nei secoli, o San Marino, da quante anime di italiani vivono e viveranno alla patria e alla libertà. E voi, o cittadini, inscrivete su la porta della città il 31 luglio 1849, e da una parte le ultime parole dette a' suoi dal generale quel dí – Tornate alle vostre case, ma ricordatevi che l'Italia non dee rimanere nel servaggio e nella vergogna –, e dall'altra la memoria data a voi nei giorni migliori – Ricorderò sempre l'ospitalità generosa di San Marino in un'ora di suprema sciagura per me e per l'Italia. – O repubblica, piena del mirabile spirito della storia nella tua piccolezza, come, oscurandosi l'antica Roma, fosti sortita ad accogliere il cenere dell'italica libertà sparso ai venti, cosí, risorgendo innovata Roma ad altri destini, tu fosti degnata a salvare le sorti nove d'Italia. Onore a te, o antica repubblica, virtuosa, generosa, fidente! onore a te! e vivi eterna con la vita e la gloria d'Italia!
30 settembre 1894.